Il futuro luminoso socialista di Cuba genera mostri
«A mezzanotte ci salutammo e José Lezama Lima mi disse: Ricorda che l'unica forma di salvezza che abbiamo è la parola. Scrivi». Puntata in collaborazione con la newsletter "Un cucchiaio di zucchero".
Comincio con una novità e una premessa…
Novità: mi sono buttata, per una volta non ascoltando la mia solita poca autostima maledetta che mi fa sempre pensare che farà schifo e lo ascolterà solo mia mamma. E se anche fosse, mi sono divertita un sacco a farlo e va bene così! Vi annuncio quindi che ho lanciato il mio podcast!
Non mi dilungo in dettagli, vi dico solo che parla di scrittori e scrittrici latinoamericani ribelli che hanno sfidato dittature o società bigotte e opprimenti, si chiama “Fuori dal gioco” e lo trovate qui. Spero vi piaccia, è molto amatoriale e sono apertissima a suggerimenti, critiche, tutto quello che vi passa per la testa e che mi può aiutare a migliorare. Grazie davvero se ascolterete!
Premessa: per questo numero, Sudestada è gemellata con la bellissima newsletter “Un cucchiaio di zucchero - storie da Cuba” di Fabiana Bolignano, che ogni due martedì pubblica racconti di vita quotidiana a Cuba. È stato un piacere preparare questa puntata insieme a lei, ognuna con un punto di vista diverso: lei storico e di costume, io letterario. Vi invito a leggere anche il suo articolo cliccando sul link qui sopra. 😊
L’arduo tema su cui ci siamo sbizzarrite è: il cammino verso il futuro luminoso socialista…
Confesso: da adolescente ero innamorata di Che Guevara. Mi affascinava la sua lotta per l’uguaglianza sociale, combattere perché non ci fossero più pochi che avevano tutto e moltissimi che non avevano niente.
M’infiammavo di fronte alle ingiustizie, portavo come un vessillo la spilletta con il volto del Che nello zaino dell’università. Pensavo di avere le risposte in quello zaino, ma ero soltanto giovane.
Oggi, diversi (non diciamo quanti😅) anni dopo, mi sento un po’ sperduta, e i risultati del referendum dell’8 e 9 giugno hanno acuito questa sensazione. Non solo l’affluenza, che immaginavo sarebbe stata bassa, ma il fatto che il quesito sulla cittadinanza sia stato così impopolare anche tra chi si è recato alle urne e non ha deciso quindi di astenersi.
Sui social – tanto per cambiare – nei giorni successivi al referendum il tono è stato abbastanza aggressivo, quasi di astio per chi non è andato a votare preferendo “andare al mare”. Ecco, io credo che sia questo il problema, il motivo per cui la sinistra sta perdendo terreno ovunque nel mondo: il presupporre che le persone siano pigre, o stupide, o che se ne freghino dell’attualità. Il fatto che spesso chi si dichiara progressista pensi di essere più fig* e intelligente, con quella patina di superiorità che mette della distanza tra sé stess* e la massa. In quella sorta di piedistallo che non riesce nemmeno a sfiorare le vite e i problemi delle persone reali, incattivite e rese diffidenti dalle difficoltà quotidiane.
Questo è un periodo storico in cui la sinistra deve fare tanta autocritica. Non serve rimproverare chi è presuntamente andato al mare e accusarlo d’indifferenza e di essere insensibile alla democrazia e ai diritti faticosamente guadagnati, che noi oggi abbiamo e molti popoli no. Serve chiedersi secondo me, ma seriamente, perché quelle idee non fanno più breccia nelle persone.
Le bolle dei social ci ingannano. Nei giorni prima del referendum, il mio feed di Instagram era pieno di contenuti sui quesiti, spiegazioni, inviti a recarsi alle urne. Mi sembrava un segnale bellissimo, qualcosa si sta muovendo, pensavo. Ma era solo la mia bolla, una percentuale infinitesimale della società reale. Un filtro che mi fa vedere la realtà come piace a me. La politica dovrebbe uscire dalle bolle, ho pensato. Tornare per strada, ascoltare.
Il discorso è sempre, sempre quello, vecchio come il mondo: “voto no al referendum perché gli stranieri ci rubano il lavoro e vengono qua a delinquere”.
Di fronte alla confusione, allo spaesamento del mondo in cui viviamo, ci si aggrappa spesso ai vecchi motti novecenteschi, di destra o di sinistra che siano. Sono rassicuranti, ci sembra di poter aprire un cassetto e sono lì, pieni di naftalina e vogliosi di semplificarci le cose. E ci sono cascata anch’io.
Al Salone lo scorso maggio ho voluto provare quel brivido primigenio, quella spavalderia dell’essere giovane e pensare di avere capito tutto, e mi sono detta “massì, andiamo a sentire Aleida Guevara March”.
Chi è questa donna nella foto? Nientemeno che la figlia del Che Guevara. Oggi fa la pediatra in un ospedale infantile de L’Avana ed è stata ospite al Salone di Torino per presentare e promuovere la mostra dedicata al padre che è in corso a Bologna fino al 30 giugno al Museo Civico Archeologico. Dai materiali (foto, documenti inediti, lettere ecc) esposti nella mostra, la casa editrice Pendragon ha ricavato anche un libro, Ernesto Che Guevara tú y todos, che trovate qui se v’interessa.
Il mito del Che Guevara è sopravvissuto per così tanti anni perché ha sempre incarnato un’idea di cambiamento, e un tempo il cambiamento non ci faceva paura. Il Che era una figura cavalleresca, mitica. Come Budda, come San Francesco di Assisi, anche lui aveva rinunciato a una vita agiata, benestante, priva di sofferenze, per lottare per un mondo più giusto. Gli eroi fanno sempre breccia nel nostro cuore, anche quelli ci tolgono le paure.
Aleida parlava di suo padre e le si illuminavano gli occhi. Diceva di averlo conosciuto pochissimo, di avere passato poco tempo con lui, ricordava solo qualche parola o gesto di affetto che lui aveva con lei quando andavano nei campi di canne da zucchero. Dice che lei sapeva che suo padre era sempre assente perché si stava sacrificando per qualcosa di superiore. Racconta che suo padre amava sua madre tantissimo, e che in una lettera le scrisse:
«Quando ci siamo sposati sapevi chi ero. Amami appassionatamente, ma capiscimi. Il mio destino è segnato, niente mi fermerà fino alla morte».
In quel momento, ascoltandola, non ho provato ammirazione, non ho sentito il brivido di quelle gesta eroiche, lo struggimento dell’amore a distanza. Ho riflettuto su quell’amami appassionatamente, ma capiscimi.
Mi suonava come “amami appassionatamente ma cresci i nostri quattro figli da sola mentre io faccio l’eroe”. Mi suonava come “capiscimi e non fare l’isterica, non essere gelosa, non inventare cose che non esistono”. E le cose esistevano, perché oggi sappiamo che lui ha avuto molte donne e una relazione extraconiugale da cui pare sia nato un sesto figlio, Omar Perez.
E mi chiedevo se quella signora anziana che parlava davanti a me si fosse mai chiesta perché suo padre avesse scelto la Revolución e non lei. Non l’amava abbastanza?
“Mia madre mi ha sempre raccontato che nostro padre ci amava tantissimo”. Sentirlo dire da altri, come se fosse una favola qualsiasi raccontata prima di dormire, è sufficiente? Mi sono chiesta quanti anni avesse impiegato a costruire quella devozione che si leggeva nei suoi occhi.
Uscendo da quella sala, mi è sembrato che il nome del Che aleggiasse nell’aria come un ologramma venuto da un mondo che non esiste più. E ho capito che non m’interessava nemmeno più aggrapparmici prima che sparisse.
Preferisco aggrapparmi alla confusione, che almeno è autentica.
Qualche giorno dopo ho iniziato a leggere un libro che mi ha chiarito il senso di estraniamento che ho provato quel giorno al Salone: Prima che sia notte dello scrittore esiliato cubano Reinaldo Arenas (in Italia pubblicato da Guanda con la traduzione di Elena Dallorso).
Il titolo così poetico allude in realtà a una situazione tragica dell’autore: Reinaldo Arenas era uno scrittore omosessuale e dissidente, due condizioni che negli anni ‘60 e ‘70 a Cuba ti rendevano immediatamente un nemico pubblico. Per questo iniziò a scrivere questo suo libro di memorie mentre, ricercato dalla polizia castrista, trascorreva le sue giornate nascosto tra la vegetazione del Parco Lenin. I suoi amici gli portavano clandestinamente dei quadernetti e Arenas, tra i cespugli, si affrettava a scrivere prima del calar del sole, perché con il buio era impossibile continuare.
Ma la “notte” del titolo allude anche alla fine dell’esistenza. Una volta arrivato a New York, Arenas deve ricominciare la sua autobiografia, perché ciò che aveva già scritto è andato perso durante la fuga rocambolesca dal porto del Mariel nel 1980. Mentre ricomincia a scrivere, scopre di avere l’AIDS, e finire il libro diventa per lui allora un’ossessione. Prega di avere il tempo per farlo, perché questo libro deve trasformarsi in nemesi e colpire il comunismo, colpire quella Cuba che lui ama dolorosamente ma che è un paese che “produce canaglie, delinquenti, demagoghi e codardi in maniera sproporzionata rispetto alla sua popolazione”1.
Il libro è un urlo liberatorio e spesso scanzonato e sopra le righe contro ogni forma di potere e di repressione:
La differenza tra il sistema comunista e quello capitalista è che, nonostante entrambi ti diano un calcio in culo, sotto il comunismo te lo danno e tu devi applaudire, sotto il capitalismo te lo danno e puoi urlare, puoi dire “sono venuto qui per urlare”2.
A tratti diventa un’avventura picaresca di tentativi di fuga verso gli Stati Uniti pianificati e falliti, a tratti un romanzo erotico, ma tutto il tempo durante la lettura si viene travolti dallo scontro tra la bellezza sensuale, selvaggia e indifferente di Cuba e la sofferenza di coloro che la abitano. È un libro provocatore (fa nomi e cognomi di tutte le persone che accusa, se la prende persino con Gabriel García Márquez definendolo “una delle più importanti vallette che ha Fidel Castro!), spesso osceno, che non vuole piacere, uno sfogo pieno di ira e di una nostalgia dolciastra, appiccicosa.
Ci sono scene molto crude, soprattutto quando viene imprigionato e le condizioni di vita che descrive sono davvero terribili. Ma vi ritroverete a fare ricerche su nomi di autori e autrici cuban* che non conoscevate, come Lydia Cabrera, Heberto Padilla, Olga Andreu, Virgilio Piñera. Vi faranno riflettere amaramente frasi come questa:
Uno degli aspetti peggiori della tirannide è che si prende tutto sul serio e si fa scomparire il senso dell’umorismo. Storicamente, Cuba era sempre sfuggita alla realtà grazie alla satira e alla burla. Tuttavia, con Fidel Castro il senso dell’umorismo era andato via via scomparendo, fino a essere proibito; così il popolo cubano perse una delle poche possibilità che aveva di sopravvivere. Negandogli il riso, gli tolsero il senso profondo delle cose. Sì, le dittature sono pudiche, pompose, e assolutamente noiose3.
Ci sono scene inverosimili e iperboli evidenti, in particolare per quanto riguarda i momenti erotici. Questo potrebbe minare un po’ la credibilità di quanto raccontato, ma io credo che il libro non vada letto con un occhio da storico o biografo. Arenas è un letterato e gioca con la materia della sua vita. Il sesso, esagerato, violento, disperato, è per lui un’arma contro la repressione e il machismo di quel regime che considerava gli omosessuali esseri ripugnanti da eliminare.
Il desiderio di raccontare aneddoti è, tra l’altro, anche tipico dell’animo dell’esiliato, che si afferra con angoscia all’immagine della patria amata-odiata e quel dolore lo porta a manipolare poeticamente i ricordi, a farli diventare un mito.
L’amore per Cuba e l’odio per Fidel Castro non abbandoneranno mai Reinaldo Arenas. Sapendo che l’AIDS non gli avrebbe dato tregua, si uccise il 7 dicembre del 1990 a soli 47 anni, con un overdose di droga e alcol. Lasciò una lettera di addio in cui accusa Fidel Castro di essere l’unico responsabile del suo suicidio e conclude così:
Esorto il popolo cubano, sia nell’esilio che nell’isola, affinché prosegua la lotta per la libertà. Il mio non è un messaggio di sconfitta, ma di lotta e speranza.
Cuba sarà libera. Io lo sono già.
Per finire, brevemente i miei consigli di ascolto e di visione per questo mese:
🎥 Da vedere: dall’autobiografia di Reinaldo Arenas è stato tratto l’omonimo film del regista statunitense Julian Schnabel nel 2000, dove Arenas è interpretato da un giovanissimo Javier Bardem. Qui trovate un link a Youtube dove si può vedere gratuitamente il film completo (spero di non violare nessuna regola di copyright!).
🎧 Consiglio musicale: sicuramente la più famosa cantante cubana in esilio è stata l’iconica Celia Cruz, che è morta nel 2003 negli Stati Uniti senza aver più potuto mettere piede nella sua amata Cuba dal momento dell’esilio nel 1961, e chiese per questo di essere sepolta con un mucchietto di terra cubana vicino a lei, dentro la tomba.
Ma un altro nome da riscoprire è quello di Bebo Valdés, pianista e compositore leggendario e padre del cosiddetto Afro-cuban jazz. Nato nel 1918, fu figlio di schiavi e rivendicò sempre le radici africane della musica tradizionale cubana. Morì nel 2013 a Stoccolma, dopo una vita di esilio e di censura nella sua Cuba, dove il suo nome non venne mai pronunciato nonostante Bebo abbia vinto ben 5 Grammy latini. Se volete ascoltarlo, vi consiglio di partire da qui.
Sudestada sarà sempre gratis per tutti, ma scriverla richiede tante ore e un investimento notevole in libri e materiale vario che acquisto per ogni puntata. Se apprezzate il mio lavoro e vi va di offrirmi un caffè, vi lascio qui sotto il pulsantino per farlo. Grazie di cuore! ❤️
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Ci sentiamo qui a luglio, un abrazo! ❤️
Rocío, alias Clavel del aire.
Traduzione mia, perché ho letto la versione in lingua originale. Reinaldo Arenas, Antes que anochezca, Tusquets Editores S.A., Barcelona, pag. 14.
Anche qui, traduzione mia. Reinaldo Arenas, Antes que anochezca, Tusquets Editores S.A., Barcelona, pag. 309.
Anche qui, traduzione mia. Reinaldo Arenas, Antes que anochezca, Tusquets Editores S.A., Barcelona, pag. 262.
Mamma mia, che puntata, Rocío! Da dove cominciare... chi non è stato innamorato della figura del Che da giovane, probabilmente mente a se stess*, ma come te trovo che sia fondamentale in questo momento storico rileggere sotto altre lenti le persone che abbiamo considerato eroi. Come te, anche io ormai non posso sentire cose come "mio padre non c'era mai per me e i miei fratelli, ma mi hanno detto che ci voleva bene" e non interpretarla in ottica transfemminista, diciamo! Leggere di Arenas poi fa sempre venire le lacrime agli occhi... Grazie per esserti concentrata anche su artist* cuban* in esilio, che mostra come Cuba sia Cuba dentro e fuori dall'isola. Grazie!
No vabbè ma che bello il podcast!!! Bravissima