Al buio brilla la letteratura boliviana
Alla scoperta di un paese e di una letteratura di cui sappiamo poco o niente.
Bolivia. Voi quanto ne sapete di questo paese? Io devo ammetterlo, poco e niente. E allora, come i bambini scoprono il mondo mordendo le cose, io lo faccio attraverso i libri. Venite con me, “mordiamo” un po’ di pagine! 😉
La Bolivia ha un territorio che è tre volte quello italiano ma ha solo 12 milioni di abitanti, concentrati per lo più nelle tre megalopoli di Sucre, La Paz (che pare sia la città più alta del mondo, è a 3640 metri s.l.m.) e Santa Cruz de la Sierra.
Tra una città e l’altra ci sono paesini minuscoli, c’è la foresta amazzonica, ci sono alcuni tra i picchi più alti delle Ande, tanto che la Bolivia può vantare un patrimonio ambientale con i livelli di biodiversità tra i più elevati al mondo. Tuttavia, non ha sviluppato negli anni molte vie di comunicazione e forse è stato quest’isolamento a far fiorire qui una letteratura assolutamente unica.
La produzione letteraria del ‘900 è incentrata sull’impegno politico e sulla denuncia dei processi sociali che, nella storia tumultuosa della Bolivia, hanno portato a enormi diseguaglianze e allo sfruttamento spietato dei popoli indigeni. I principali esponenti della corrente realista furono Alcides Arguedas (considerato il vero fondatore del romanzo boliviano), Armando Chirveches e Jaime Mendoza (che denunciò la situazione dei lavoratori delle miniere nel romanzo En las tierras de Potosí).
Ben poche sono purtroppo le traduzioni che ci permettono di conoscere in Italia la letteratura boliviana: Jaime Saenz, uno scrittore eccentrico e anticonformista considerato il più importante scrittore boliviano del ’900 (Crocetti ha pubblicato la raccolta di poesie Percorrere questa distanza e il suo imponente romanzo Felipe Delgado, oggi purtroppo fuori catalogo. Del personaggio assurdo che era Jaime Saenz vi parlo qui), Jesús Urzagasti (sempre Crocetti ha tradotto la sua obra maestra, Tirinea), il poeta Pedro Shimose, pubblicato da Sinopia, e pochi altri, quasi sempre tradotti da Claudio Cinti.
Tra gli anni ‘70 e ‘80 nasce però una nuova generazione di autori più intenti a raccontare temi intimi e a trasformare le istanze dell’indigenismo e le questioni sociologiche in chiave universale. Appartengono a questa generazione (che gode per fortuna di più visibilità in Italia) Giovanna Rivero, Rodrigo Hasbún, Edmundo Paz Soldán e l’autrice di cui vi parlerò nello specifico oggi: Liliana Colanzi.
Al buio brillate : tra meticciato e distopia pop
Liliana Colanzi, classe 1981, è nata a Santa Cruz de la Sierra e ha esordito nel 2010 con la raccolta di racconti Vacaciones permanentes. Con la seconda raccolta, Il nostro mondo morto (Gran Vía), è arrivata finalista al Premio Hispanoamericano de Cuentos Gabriel García Márquez, e finalmente ce l’ha fatta nel 2022, vincendo il Premio de Narrativa Breve Ribera del Duero con Al buio brillate, sempre edito in Italia da Gran Vía.
La giuria le ha assegnato il premio riconoscendo in questa raccolta
un’opera di grande originalità e potenza espressiva, che costruisce strani mondi unendo la fantascienza al realismo per creare una critica che ci mette di fronte alla desolazione e alle inquietudini della vita.
I racconti di Liliana Colanzi, in effetti, sono un invito ad acuire i nostri sensi e la nostra immaginazione ma, al tempo stesso, possiamo avvertire da parte dell’autrice una presa di posizione politica sulla nostra realtà anche quando la storia ci porta in altri mondi e altri tempi.
Per la scrittrice boliviana, il mondo va oltre gli esseri umani, che sono un ingranaggio piccolissimo nell’universo, e la letteratura è “la possibilità di esplorare ciò che ci sembra più estraneo e misterioso. Questa è la sfida: estendere lo sguardo oltre l’umano”. Una dichiarazione d’intenti che compare curiosamente anche nel logo della casa editrice che ha fondato nel 2017, Dum Dum editora, dove vengono accostati un albero e una navicella spaziale (tra l’altro il catalogo è incredibile, e comprende libri come Pancia d’asino di Andrea Abreu, Nefando di Mónica Ojeda e persino H.P. Lovecraft).
Il motto della sua casa editrice infatti è “abbiamo un piede sulla foresta e uno su Marte”, e l’intento è quello di pubblicare opere ibride e progetti letterari “weird”.
Mi sono imbattuta in questa scrittrice grazie al gruppo di lettura che frequento (compatibilmente con l’impegno e le letture che mi richiedono il blog e questa newsletter) dall’anno scorso a Bologna, Readondante. Valeria, Martina ed Emily, laureate alla Scuola di Interpreti e Traduttori di Forlì, hanno creato nel 2022 questo bellissimo e sereno spazio di condivisione, in cui una volta al mese ci incontriamo per parlare del libro scelto, che è a turno (e in base alle lingue in cui le ragazze sono esperte) un libro della letteratura ispano-americana, francese o inglese.
Nell’editoria italiana, come purtroppo è ben noto, le raccolte di racconti sono parecchio bistrattate. Si sa quanto, invece, nella letteratura latino-americana il racconto sia un genere di estrema importanza. Io credo che questa discriminazione sia ingiusta, perché il racconto esige talento e precisione, bisogna sapere individuare il giusto filo narrativo e tirarlo con una tensione perfetta, come se fosse un aquilone da far librare in aria.
Mantenere una coerenza tra i vari racconti di una raccolta è ancora più difficile, e Liliana Colanzi ci riesce affrontando i problemi della realtà attraverso il filtro del registro fantastico, e nutrendosi di leggende latinoamericane e miti ancestrali per lungo tempo silenziati (la Pachamama, per esempio), ma anche di tecnologia e subculture pop (compare persino il k-pop, popolarissimo tra i giovani di El Alto). Sembrano accostamenti strani, ma ciò che conferisce uniformità alla raccolta è la capacità della scrittrice di annullare le distanze tra il reale e il fantastico.
🎙️ Grazie a Readondante, sono riuscita a entrare in contatto con la traduttrice di questa raccolta, Olga Alessandra Barbato, che è stata gentilissima e si è resa disponibile a rispondere a qualche domanda per voi:
Sudestada: Quali sono le difficoltà che hai incontrato nel tradurre lo spagnolo di Liliana Colanzi, ricco di parole in quechua e di espressioni tipiche boliviane? Di quali strumenti ti sei servita? Ho notato inoltre che, per alcune parole, hai deciso di mettere una nota a piè di pagina esplicativa e per altre (singani, chicha, picana) no. Da cosa deriva questa scelta?
Olga Alessandra Barbato: La traduzione di Ustedes brillan en lo oscuro è stata una delle più coinvolgenti che abbia mai realizzato, sia per la varietà dei racconti, sia per la continua ricerca che un testo del genere comporta. Ad esempio, ho dovuto documentarmi molto sui fatti narrati nel racconto che dà il titolo alla raccolta, basato sull’incidente nucleare di Goiânia, un evento realmente accaduto. La geografia della città ha rappresentato una sfida, perché non sono riuscita a trovare molte informazioni in merito su internet: si parla di un quartiere chiamato "aeroporto" dove l’aeroporto non esiste più, il che non era immediatamente chiaro. Con l’autrice abbiamo deciso di specificare che si tratta del "Setor Aeroporto", un quartiere che mantiene questo nome nonostante l’aeroporto non ci sia più.
Un altro aspetto estremamente interessante, di cui non sapevo nulla prima di leggere Ustedes brillan en lo oscuro, riguarda le colonie mennonite, numerosissime in Bolivia, che ospita il più grande numero di queste comunità. In questo caso, ho approfittato di un dubbio lessicale per chiedere all’autrice informazioni sui suoi mezzi di documentazione.
Oggi, uno strumento imprescindibile per i traduttori è internet, non oso immaginare come facessero in passato. Per me è stato fondamentale anche confrontarmi con l’autrice, chiedendole chiarimenti su parole che non riuscivo a trovare su nessun dizionario e di cui volevo confermato il significato.
Per quanto riguarda le note a piè di pagina, le vedo come un arricchimento per il lettore più che una sconfitta del traduttore, ma chiaramente in un testo narrativo non possono occupare l’intera pagina! Ho deciso di spiegare solo le parole che non sono facilmente deducibili dal contesto o che non si trovano con una veloce ricerca su internet. Ad esempio, per chicha e singani si capisce dal testo che sono bevande alcoliche, mentre per picana uno dei primi risultati su internet è una pagina Wikipedia in italiano. Ammetto che non è stato facile fare questa scelta e sono sicura che, se rivedessi il testo ora, mi pentirei di alcune decisioni!.
Sudestada: Nel primo racconto, ho notato con sorpresa e piacere che hai utilizzato la schwa. Confrontando l'originale in spagnolo, ho visto che Liliana Colanzi usa in quel caso la "e inclusiva". In italiano la schwa non è molto diffusa nei libri, volevo chiederti se c'è stato prima un confronto con la redazione di Gran Vía, o se è stata una scelta naturale e spontanea da parte tua.
Olga Alessandra Barbato: La scelta della schwa è stata per me del tutto naturale e non ne ho discusso con la redazione, quindi immagino che anche loro fossero d’accordo. Nel grande dibattito attuale sul linguaggio inclusivo, penso che la schwa, pur con i suoi limiti, sembri al momento la scelta migliore per lo scritto. Case editrici come effequ hanno iniziato a utilizzarla nei loro libri, ma temo che nell’editoria italiana in generale manchi ancora l’attenzione necessaria nei confronti dell’inclusività.
Sudestada: Negli ultimi anni, alcune scrittrici latinoamericane come Fernanda Trías, Mónica Ojeda, Samanta Schweblin, Fernanda Melchor, Camila Sosa Villada, Mariana Enríquez, Valeria Luiselli, Gabriela Wiener ecc si sono fatte notare molto. Hanno vinto premi, sono state tradotte in tutto il mondo ed elogiate dalla critica, tanto che spesso si parla di "nuovo boom femminile" della letteratura latino-americana. Liliana Colanzi, però, è stata categorica in un'intervista, e ha detto "Non conosco una sola scrittrice latino-americana che si sia identificata con quest'etichetta del boom. La scrittura delle donne è sempre stata lì, ma è stata ignorata. Non si può mettere sotto un'etichetta delle sensibilità così diverse". Tu che ne pensi?
Olga Alessandra Barbato: Vargas Llosa, nel suo Diccionario del amante de América Latina, dice di aver scoperto l’America Latina a Parigi. Tralasciando l’ironia di questa frase, essa evidenzia la tendenza che abbiamo in Europa di etichettare in modo univoco un intero continente con stili e temi diversissimi. È un po' come il realismo magico, che da García Márquez in poi è stato attribuito a qualsiasi scrittura vagamente sovrannaturale proveniente da quei luoghi. Potremmo parlare di uno sguardo coloniale che forse non abbiamo mai abbandonato, ma più semplicemente possiamo dire che al momento va di moda pubblicare autrici latinoamericane, che ora ricevono quel riconoscimento che nel boom latinoamericano era riservato solo agli uomini.
Quindi è vero che nel mondo si percepisce una maggiore presenza di queste scrittrici, ma è comprensibile che per le autrici stesse sia difficile identificarsi in questa idea, sia perché le scrittrici latinoamericane sono sempre esistite, sia perché rischia di semplificare e limitare. In un certo senso, parlare di boom femminile finisce per sottolineare la disparità precedente, più che etichettare un fenomeno reale. Se poi dire che c’è un boom serve a riscattare le donne escluse dal boom degli anni Sessanta, allora etichettare può avere anche i suoi lati positivi.
Sudestada: In Italia purtroppo conosciamo poco la letteratura boliviana, ma questa ha una tradizione ricchissima che affonda le radici nella cultura quechua e aymara. Soltanto di recente abbiamo iniziato a tradurre e pubblicare i romanzi di Rodrigo Hasbún (Sur) e i racconti di Giovanna Rivero (Gran Vía). Che cosa ci consigli di recuperare? Quali autori/ autrici secondo te dovrebbero essere tradottə?
Olga Alessandra Barbato: Ho letto e amato sia Rodrigo Hasbún che Giovanna Rivero, ma non è sempre facile reperire quei libri che non sono ancora arrivati in Italia. Uno scrittore che ho conosciuto grazie a Il nostro mondo morto, la raccolta di racconti precedenti di Liliana Colanzi, è Jaime Saenz, poeta e romanziere, un personaggio davvero sui generis. È uno dei più grandi autori boliviani, ma in Italia è quasi del tutto sconosciuto. Saenz esplora temi esistenziali con un punto di vista personale e spesso oscuro, offrendo una visione unica della realtà boliviana.
Per quanto riguarda la diffusione della letteratura di questo paese in Italia, è encomiabile il lavoro di Gran vía, che per esempio ha pubblicato Calles, una raccolta di dodici racconti di diversi autori boliviani davvero interessanti.
🎙️ Nota: le risposte di Olga mi sono arrivate dopo che avevo già scritto la parte introduttiva, ed è stato bello per me vedere che siamo d’accordo sul consigliarvi Jaime Saenz. A rischio di essere ripetitiva (perdón!), ho lasciato entrambe le citazioni, a mo’ di preghiera perché qualcuno ci ascolti e decida di tradurre in italiano questo autore fondamentale! 🙏
Quindi, per concludere con un’opinione personale, vi dico che, anche se non tutti i racconti della raccolta mi sono piaciuti allo stesso modo (è il rischio e anche la bellezza delle raccolte), sicuramente ciò che emerge è la potentissima immaginazione di Liliana Colanzi. La sua è una distopia che s’insinua piano piano nel nostro presente, tanto che viene spesso da chiedersi se ciò che lei racconta non stia già accadendo da qualche parte nel mondo.
🎧 Consiglio musicale: questo mese vi propongo i Deszaire, una band boliviana che mescola pop, rock e ska. Ascolto questa canzone da qualche giorno perché mi mette un sacco di allegria (e quanta allegria ci serve in questo periodo!).
🎥 Da vedere: per Liliana Colanzi l’ambiente è un tema narrativo e una preoccupazione fondamentale. In un’intervista, ha dichiarato:
Per molto tempo abbiamo creduto di essere la specie che doveva governare il pianeta e decidere il destino delle altre specie, convinti che il nostro benessere dovesse prevalere senza tenere conto degli altri esseri che ci accompagnano. Questa è l’ideologia che ci ha portato alla distruzione del pianeta.
Il film che vi propongo è Utama - Le terre dimenticate del regista boliviano Alejandro Loayza-Grisi. “Utama” in quechua significa “la nostra casa”, e il film –vincitore del Gran Premio della Giuria al Sundance 2022 – è un grido di allarme sui cambiamenti climatici. I protagonisti sono Virginio e Sisa, un'anziana coppia quechua che resiste sull'Altipiano boliviano devastato dalla siccità.
Qui il trailer. Lo trovate a noleggio su Prime, Chili, YouTube e su Apple TV.
Ci risentiamo come sempre a metà luglio qui su Substack e a fine giugno sul blog, dove questa volta andiamo in Brasile! Ah, e poi mi trovate anche su Instagram, dove sono molto attiva e vi racconto curiosità, personaggi folli che scopro e recensioni di libri.
Ultimi messaggi di servizio: se ti è piaciuta questa puntata di Sudestada e vuoi inoltrarla a qualcuno che potrebbe apprezzarla, ti facilito il tutto con questo pulsantino 😉
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Un abrazo, vi voglio bene! ❤️
Rocío, alias Clavel del aire.
Che bello questo numero Rocío, non si sa quante piccole cicche mi sono appuntato da recuperare: la casa editrice Dum Dum, Jaime Saenz, Utama (che non vedo l'ora di vedere), i Deszaire. Davvero un bel viaggio :)
La letteratura boliviana, questa sconosciuta... non più, grazie a questa newsletter. :) Grazie mille per i ricchi consigli di lettura!